San Benedetto da Norcia, fondatore dell’ordine dei Benedettini che da lui prese il nome, nacque intorno al 480 e morì il 21 marzo del 547. A 12 anni rimase orfano di madre e fu mandato con la sorella a Roma per seguire i propri studi. Rimase sconvolto dalla dissolutezza presente nella città, arrivando a disprezzare i beni materiali e desiderare la vita monastica, a cui si dedicò appena diciassettenne.
Fondò anche il Monastero di Montecassino (nell’omonima località), ed è qui che compose intorno al 540 la sua Regola, prendendo spunto anche dalle esperienze di altri santi uomini contemporanei e precedenti oltre che da quelle personali (in particolare da quella eremitica). Alla base della Regola ci fu la sua intenzione di migliorare la propria vita attraverso la disciplina e la spiritualità, sempre rispettando la personalità umana. Da questa volontà nacque il famoso motto “Ora et labora”, simbolo dei benedettini.
San Benedetto organizzò la vita monastica attorno a tre cardini, base di un’elevata vita spirituale, tesi ad impegnare costantemente il monaco e portarlo a concentrarsi solo su Dio:
1 –Preghiera comune
2 –Preghiera personale
3 –Lavoro
Il lavoro di cui spesso si occupava un monaco benedettino era quello della trascrizione e copiatura dei testi antichi, soprattutto di quelli di origine biblica. La “preghiera” stessa è intesa come l’atto di contemplare il Cristo alla luce della Parola Sacra, tanto nella propria cella in solitudine e meditazione, quanto nel partecipare alle attività in comune come la pratica dei canti gregoriani, l’ascolto della messa e quello delle letture durante i pasti. Lavoro e preghiera si fondono, avendo come base l’atteggiamento a cui le loro attività li spingevano.
La Regola si sviluppò in maniera da definire in dettaglio la vita che i monaci dovevano condurre all’interno del monastero. Composta da un Prologo e settantatre capitoli, la Regola presenta delle parti vaghe e un po’ imprecise forse anche a causa della mole stessa.
Gli obblighi di base erano quelli di stabilirsi in un luogo (in genere un monastero) e collaborare con i confratelli come in una famiglia, conducendo una vita dall’alta moralità e non priva di pietà verso il prossimo. L’aspetto comunitario è anche reso palese nel non chiamare mai un altro monaco “superiore”, da cui l’utilizzo della parola abate. La parola significa padre amoroso, inteso come fulcro di una famiglia ordinata e funzionale.
Nel settantatreesimo e ultimo capitolo della sua Regola, San Benedetto afferma che la sua Regola non è tanto un manuale di istruzioni per raggiungere la perfezione, quanto piuttosto si tratta di linee guida verso la devozione per coloro che si avvicinano alla vita spirituale. La Regola, comunque, non è soltanto per i novizi o coloro che intendono diventare monaci, ma è anche un manuale, un codice per la preghiera, per la vita monastica nel complesso, così come una ispirazione per l’organizzazione, per i doveri monastici e per le azioni disciplinari che vanno intraprese dagli abati.
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